Il Trump 2.0 ha rovesciato le aspettative degli investitori, anticipando la porzione più indigeribile del programma elettorale. Forse perché la parte su cui contava Wall Street, allo stato attuale non è praticabile. Ne approfitta il MSCI World ex USA.

Se indulgessimo nel contemplare la realtà dallo specchietto retrovisore, dovremmo apprezzare la lettura definitiva del PIL americano per il quarto trimestre dello scorso anno: un +2.4% interamente alimentato dalla crescita dei consumi. Particolare rilevante, tenuto conto che il primo decile degli americani per reddito, è titolare della metà della spesa per consumi. E si tratta tendenzialmente della fascia di popolazione che detiene la maggior parte delle azioni in circolazione.
Se osserviamo la realtà dal parabrezza, invece, scorgiamo un PIL proiettato dalla Fed di Atlanta ad un gramo +0.2% nel primo quarto di quest’anno. Un po’ meglio della lettura precedente, ma sempre di stagnazione si tratta. Ad onor del vero, i distretti Fed di New York e St. Louis sono ben più generosi nelle stime: +2.72 e +2.25%, rispettivamente. Ed infatti il mercato a termine non si scompone molto nel rivedere in meglio le prospettive di taglio dei tassi ufficiali in occasione delle prossime riunioni di maggio e giugno, nonostante la velata minaccia recessiva.

Wall Street non può che accogliere con mestizia questo scenario di crescita interrotta e di easing probabilmente giunto al capolinea: il primo trimestre di quest’anno si avvia a chiudere tristemente in territorio negativo, al contrario di quanto si registri nel resto del mondo. Se il contesto macro non aiuta, quello micro non può fare molto: secondo Citi, le società quotate hanno rivisto al ribasso le stime di crescita dei profitti per ben 14 settimane di fila. Questo dato ha un bias negativo, ma di certo non esalta. E anche qui si nota una dicotomia rispetto al resto del mondo.
Stando così le cose, non sorprende che, per la quarta settimana di fila, i piccoli investitori censiti dalla AAII si rivelino ribassisti in maggioranza: più del 50% del campione interpellato. È soltanto la terza volta nella storia che si registra una simile proporzione; i precedenti risalendo ad ottobre 1990 e ad ottobre 2022.

La delusione è palpabile. Alla fine del 2024 era maturata la convinzione che la subentrante amministrazione Trump avrebbe privilegiato il taglio delle imposte ed una deregulation che avrebbe stimolato la crescita. Questo ha prevalso su fattori meno digeribili dell’agenda: segnatamente, contrasto all’immigrazione ed inasprimento dei dazi doganali.
Come ben sappiamo, il Trump 2.0 ha ribaltato queste aspettative: forse, nella consapevolezza che la risicata e traballante maggioranza di cui gode in ambo i rami del Congresso, renda al momento alquanto ardua una revisione della politica fiscale – con i tagli di otto anni fa che vanno a fisiologica scadenza – e che comprimere il disavanzo federale, financo flirtando con la recessione; è l’unico modo per convincere la Fed ad abbassare i tassi ed il mercato a comprimere i rendimenti: in tal modo conseguendo i risparmi di bilancio che in ultima analisi permetterebbero di lavorare alla parte più benigna e gradita del programma elettorale.