La risposta di Pechino all'inasprimento dei dazi americani non si è fatta attendere. Si va verso una nuova guerra commerciale. E adesso si registrano massicci realizzi anche sul reddito fisso. La Federal Reserve è paralizzata da un dilemma lacerante.
A Pechino alle parole sono seguiti i fatti. La banca centrale cinese (PBoC) ha lasciato ieri fluttuare il cambio, consentendo allo yuan di salire oltre quota 7.30 contro dollaro. È la risposta all’inasprimento dei dazi doganali sancita dall’amministrazione Trump. Sembra la replica della guerra commerciale del 2018, con la non irrilevante differenza che questa volta la svalutazione del cambio cinese non è il riflesso di un dollaro forte o di un differenziale di rendimento che premia gli Stati Uniti. La risposta, scomposta e isterica, dei mercati non si è fatta attendere. Dopo aver aperto in rialzo di oltre il 3.5%, lo S&P500 ha ceduto da massimo a minimo oltre 5 punti, chiudendo in ribasso dell’1.5%, a poca distanza dalla soglia oltre la quale sarebbe formalizzato il bear market. Ma forse peggio fa il mercato obbligazionario, con i rendimenti dei Treasury – e non solo – da due giorni in ripida salita.
In quattro sedute lo S&P500 ha perso il 12%. Nel Dopoguerra soltanto altre 5 volte è stata registrata una debacle simile o superiore: il Lunedì Nero del 1987, con il fallimento del LTCM nel 1998, fallimento Worldcom del 2002, ottobre nero del 2008 ed emergenza pandemica di marzo 2020. In tutti questi casi però il mercato obbligazionario ha agito da valvola di sfogo, con i rendimenti non di rado in caduta libera. Non questa volta. Emerge allora il fondato timore che sia in atto un esodo dagli Stati Uniti e dai loro propositi di ristrutturazione (dovremmo dire: sabotaggio?) del sistema finanziario e commerciale internazionale. Gli investitori non si sentono più adeguatamente protetti e manifestano appieno il loro disagio. Lo si scorge dal comportamento schizofrenico del VIX, su cui ritorniamo più avanti, e per dirne una dalla perdita record (-3.2%) dei corporate bond USA investment grade (ETF “LQD”) soltanto negli ultimi due giorni.
Ieri le compagnie di navigazione segnalavano un crollo del 67% dei transiti dalla Cina alle coste occidentali degli Stati Uniti. Naturalmente allo stato attuale il commercio bilaterale diventa economicamente improponibile. Non sorprende il dato deludente circa la fiducia delle imprese americane, reso noto ieri dalla NFIB: un sondaggio, significativamente condotto prima del 2 aprile, che evidenzia un declino delle intenzioni di assunzione, ed una proporzione contenuta al 21% di aziende che si aspettano condizioni migliori di business nei prossimi sei mesi; dal 52% di dicembre. In questo contesto una banca centrale dovrebbe valutare l’intervento. Ma la Fed è paralizzata dal dilemma: se tagliare i tassi per scongiurare il peggio, consapevole che ciò risveglierebbe definitivamente l’inflazione. Difatti ieri sera la probabilità di un taglio fra ormai meno di un mese, si attestava al 62%: molto, ma non così scontato.
Da una perdita a doppia cifra percentuale ad un saldo praticamente immutato: il mese di aprile va in archivio promettendo di stabilire un primato. La casistica storica consente di definire una mappa probabilistica per i prossimi sei mesi di Wall Str... Continua...
Gli investitori tirano un sospiro di sollievo: le perdite successive al famigerato 2 aprile sono state quasi integralmente riassorbite. Fra setup ribassisti che forse hanno esaurito i loro effetti, ed indicazioni prospettiche promettenti, quale futu... Continua...
In sofferenza da inizio anno un portafoglio diversificato fra azioni e titoli di Stato. Colpa del reddito fisso che non copre più: in dieci anni un investimento in bond USA di qualità ha reso mediamente l'1.3% annuo, considerando anche le cedole inc... Continua...
La risposta di Pechino all'inasprimento dei dazi americani non si è fatta attendere. Si va verso una nuova guerra commerciale. E adesso si registrano massicci realizzi anche sul reddito fisso. La Federal Reserve è paralizzata da un dilemma lacerante.
A Pechino alle parole sono seguiti i fatti. La banca centrale cinese (PBoC) ha lasciato ieri fluttuare il cambio, consentendo allo yuan di salire oltre quota 7.30 contro dollaro. È la risposta all’inasprimento dei dazi doganali sancita dall’amministrazione Trump. Sembra la replica della guerra commerciale del 2018, con la non irrilevante differenza che questa volta la svalutazione del cambio cinese non è il riflesso di un dollaro forte o di un differenziale di rendimento che premia gli Stati Uniti.
La risposta, scomposta e isterica, dei mercati non si è fatta attendere. Dopo aver aperto in rialzo di oltre il 3.5%, lo S&P500 ha ceduto da massimo a minimo oltre 5 punti, chiudendo in ribasso dell’1.5%, a poca distanza dalla soglia oltre la quale sarebbe formalizzato il bear market. Ma forse peggio fa il mercato obbligazionario, con i rendimenti dei Treasury – e non solo – da due giorni in ripida salita.
In quattro sedute lo S&P500 ha perso il 12%. Nel Dopoguerra soltanto altre 5 volte è stata registrata una debacle simile o superiore: il Lunedì Nero del 1987, con il fallimento del LTCM nel 1998, fallimento Worldcom del 2002, ottobre nero del 2008 ed emergenza pandemica di marzo 2020. In tutti questi casi però il mercato obbligazionario ha agito da valvola di sfogo, con i rendimenti non di rado in caduta libera. Non questa volta.
Emerge allora il fondato timore che sia in atto un esodo dagli Stati Uniti e dai loro propositi di ristrutturazione (dovremmo dire: sabotaggio?) del sistema finanziario e commerciale internazionale. Gli investitori non si sentono più adeguatamente protetti e manifestano appieno il loro disagio.
Lo si scorge dal comportamento schizofrenico del VIX, su cui ritorniamo più avanti, e per dirne una dalla perdita record (-3.2%) dei corporate bond USA investment grade (ETF “LQD”) soltanto negli ultimi due giorni.
Ieri le compagnie di navigazione segnalavano un crollo del 67% dei transiti dalla Cina alle coste occidentali degli Stati Uniti. Naturalmente allo stato attuale il commercio bilaterale diventa economicamente improponibile. Non sorprende il dato deludente circa la fiducia delle imprese americane, reso noto ieri dalla NFIB: un sondaggio, significativamente condotto prima del 2 aprile, che evidenzia un declino delle intenzioni di assunzione, ed una proporzione contenuta al 21% di aziende che si aspettano condizioni migliori di business nei prossimi sei mesi; dal 52% di dicembre.
In questo contesto una banca centrale dovrebbe valutare l’intervento. Ma la Fed è paralizzata dal dilemma: se tagliare i tassi per scongiurare il peggio, consapevole che ciò risveglierebbe definitivamente l’inflazione. Difatti ieri sera la probabilità di un taglio fra ormai meno di un mese, si attestava al 62%: molto, ma non così scontato.