Ieri un portafoglio 60/40 a stelle e strisce ha subito un arretramento che lo colloca al quarto percentile delle performance giornaliere storiche. Salgono solo i rendimenti dei bond a breve scadenza, mentre quelli a lunga pagano un pesante scotto all’incertezza.

Il 2 aprile sarà stato per gli USA il giorno della liberazione; ma di certo non dall’incertezza. Crescita economica, commercio internazionale e politica monetaria sono pesanti incognite nell’equazione che gli investitori ogni giorno devono affrontare.
Lo scontro più feroce è fra le massime cariche: con l’amministrazione che non fa mistero di auspicare il licenziamento del governatore della Federal Reserve, sempre più frustrata per il “rifiuto” del costo del denaro di piegare verso il basso, e per i ripetuti tagli del policy rate, sponda BCE, che oltretutto non penalizzano il cambio della divisa europea; al contrario, lo esaltano.
Genuina volontà di esasperare il carattere bellicoso della presidenza, o nuovo fronte negoziale? difficile stabilirlo, e proprio questo è il punto. Kevin Warsh, ex governatore ed in predicato di succedere a Powell, si schiera contro la fine anticipata del mandato scadente fra poco più di un anno, in questo ben supportato dal segretario al Tesoro Bessent. D’altro canto, la minaccia ufficiale va incontro a tutta una serie di problematiche di natura legale, politica ed istituzionale. Nonché pratica.

Perché mantenere Powell al suo posto fornisce ogni giorno un comodo alibi alla Casa Bianca, nel momento in cui tardano a manifestarsi i benefici della strategia inaugurata tre mesi fa. Senza considerare che un simile scontro istituzionale mina alle fondamenta lo stato di diritto e la credibilità che hanno fatto la fortuna degli Stati Uniti, concedendo ad essi un premio per il rischio tradottosi in maggiori multipli di borse e minori rendimenti dei bond.
Per fortuna i siti di scommesse assegnano all’eventualità di un licenziamento di Powell una probabilità non superiore al 20%. Ma gli investitori assumono una logica non deprecabile di “prima spara, e poi chiedi”, con lo S&P500 che, a -14% dall’insediamento, fa parlare di sé in negativo.
Nessuno ha fatto così male dal giuramento: il Giappone cede meno del 6%;  Francia, Canada e Regno Unito perdono meno del 5%, l’Italia è invariata, mentre Messico, Spagna e Germania guadagnano non poco terreno. La crisi è americana, ed è pacifico per tutti che a pagare il conto siano gli USA.

Ieri un portafoglio 60/40 a stelle e strisce ha subito un arretramento che lo colloca al quarto percentile delle performance giornaliere storiche. Salgono solo i rendimenti dei bond a breve scadenza, mentre quelli a lunga pagano un pesante scotto all’incertezza. Il rapporto fra S&P500 e oro precipita del 25% in tre mesi, toccando i minimi degli ultimi tre anni: e su questo molto ci sarebbe da dire, se non fosse già così eloquente.
Il nostro modello di asset allocation oggi aggiunge qualcosa all’Equity, pur rimanendo sottopesato rispetto al benchmark. Come mostrato prima di Pasqua, le speranze degli investitori sono riposte nei modelli previsionali basati sull’andamento della volatilità (VIX).